Un altro. Un’altro ancora e chissà quanti nel prossimo futuro. I casi di doping stanno sbocciando come i fiori di primavera, turbando il mesto e un tempo povero mondo dell’atletica. Qualche anno fa si sarebbe detto che il calcio, dove scorreva un fiume di milioni, “giustificava” l’uso di doping con la priorità del fatturato, strettamente collegato con le vittorie. L’atletica era solamente uno sport minore.
Ora che i numeri stanno diventando interessanti, nelle corse su strada, nelle maratone internazionali e il movimento tutto prende vigore, si comincia ad avere una sensazione sempre più chiara: il doping serve per arricchirsi. Se questa mia tesi fosse vera, si entrerebbe in un tunnel di parole dalla quale difficilmente ne usciremo con una soluzione.
Ma di questo si tratta. Nel momento in cui lo sport diventa un lavoro a 360°, dal quale trarre il denaro per vivere, perché l’atleta non dovrebbe fare tutto ciò che è a sua disposizione per riuscirvi? C’è forse etica nel guadagnarsi il pane, speculando su titoli di borsa, che non rappresentano neanche lontanamente l’economia reale? C’è forse etica, nell’andare porta a porta utilizzando le più meschine tecniche di vendita per raggirare un anziano e fargli firmare un contratto di fornitura di un qualsiasi prodotto? No. Eppure nonostante non ci piaccia, il mondo è fatto anche di questo.
Questa gente, non sapendo arrivare a produrre risultati onestamente, deve usare scorciatoie. Il doping eticamente è sbagliato e intollerabile, ma se di mezzo c’è un professionismo spinto fino all’eccesso, che per emergere ti chiede un impegno totale e incondizionato, senza incertezze, festività, dubbi o flessioni della motivazione, allora questa corsa diventa una malattia. Un morbo che porta a utilizzare tutti i mezzi pur di non crollare e dimostrare di essere il migliore.
Se non ci arrivi per tue qualità, pur di guadagnarti il pane quotidiano con lo sport, sei portato anche ad usare mezzi non leciti. Inizia a diventare una lotta per la sopravvivenza: ci sono i soldi di mezzo, c’è il prestigio.
Asafa Powell è un’altro dei pesci grossi caduto nella rete, è di questi giorni la notizia che dovrà scontare 18 mesi di squalifica retroattiva per uso di sostanze proibite. E poi i 7 mesi di Haidane. Questi sono solamente gli ultimi casi, freschi di giornata. Certo, ogni caso ha la sua storia, ma alla base c’è la specializzazione continua, la sempre più difficile battaglia per emergere, a cui l’uomo non si rassegna. E’ una storia vecchia come il mondo. E’ giusto seguire le regole, ma l’umanità, nella sua storia ha avuto accesso al progresso, spesso perchè non ha seguito le regole. E’ insito nella nostra natura : andare avanti è la regola non scritta che ogni uomo segue. Abbattere i limiti è l’obiettivo e quasi mai ha avuto un ruolo determinante il COME, rispetto al risultato.
Il fine giustifica i mezzi dunque? No. Ma la lotta al doping è una guerra infinita, un conflitto che è facile giustificare con il mancato rispetto delle regole, ma ciò che non è facile avere a che fare con quello per cui, da quando esistiamo, siamo programmati a fare: abbattere i limiti, andare avanti, accedere al progresso di qualsiasi tipo esso sia.
E’ l’inevitabile scotto che la crescita del movimento deve pagare. Più i numeri diventano importanti, più ci sarà una rappresentazione del mondo reale in esso : ci saranno gli onesti che non accettano le scorciatoie, ci saranno i disonesti che non riescono a farne a meno. La percentuale di questi due gruppi sarà decisa dal denaro e dall’importanza mediatica che l’atletica assumerà nei prossimi anni. Ma non ci stupiamo dei numeri emersi fin’ora, perchè sono solo quelli ufficiali. Quelli veri sono tutt’altra cosa, perché in più, c’è anche l’irrazionale: ovvero la grande gioia di andare oltre il proprio limite, anche se non porta a premi in denaro, ma una grandissima soddisfazione interiore, che ben poche volte si raggiunge e per cui a volte, si è disposti a tutto.