Come si può descrivere la sensazione, il suono o la semplice estetica funzionale di un paio di scarpe chiodate?
Il riuscire a creare il perfetto connubio tra tecnica, prestazione e bellezza di una calzatura è una vera e propria opera d’arte, icone di un evento, di un periodo storico o di una memorabile impresa.
Com’è nato tutto ciò? Chi è stato il primo uomo a mettere dei chiodi sotto le sue suole per sfrecciare più veloce del suo avversario?
Non pensiate che il primo paio di chiodate sia stato progettato e realizzato in gomma, polimeri speciali e supporti comodi. Nate nel 1852, La scarpa chiodata più antica che è giunta fino a noi risale, pensate, ai primi anni del decennio 1860 prodotta da Thomas Dutton e Thorowgood ed è conservata al Brooklyn Museum. Sembrano più una commistione tra calzature da golf ed un’arma da agente segreto. Questi primi prototipi, appartenenti al conte Spencer di Wimbledon, venivano costruiti in cuoio prodotto con la pelle di canguro, di cui erano decantate le doti di resistenza e leggerezza, una usanza andata avanti per molto tempo.
Il vero visionario che aprirà la via alla ” produzione normale” di scarpe da corsa sarà l’umile ma lungimirante ciabattino bavarese di Herzogenaurach Adi Dassler, il quale vedrà il nascente movimento sportivo come un mercato su cui puntare, fondando quindi insieme al fratello Rudolf la “ Gebrüder Dassler Schuhfabrik ” madre della Adidas e della Puma, fondata da Rudolf Dassler nel 1948 dopo gli screzi col fratello.
Siamo nel 1936, mentre riposava nel villaggio olimpico di Berlino, Jesse Owens ricevette una visita del tutto inaspettata.
Alla porta dell’atleta stava un uomo sulla quarantina che ormai da 12 anni si occupava di scarpe sportive: Proprio Adi Dassler, che rischiò di essere imprigionato dal regime tedesco per ciò che stava per fare.
Dassler andò da Owens con una proposta: offrì alla leggenda le sue scarpe chiodate. Questo incontro ha fatto di Owens il primo atleta afro-americano con uno sponsor tecnico e proiettò l’Adidas tra le grandi delle firme sportive.
Le Scarpe di Owens avevano pochissimo tacco, mentre l’avampiede era notevolmente rialzato, con sei lunghi chiodi a far breccia sulla terra da bruciare dell’Olympiastadion.
Le quattro vittorie di Jesse Owens accesero le luci dei riflettori su Dassler, che da lì a poco ricevette moltissimi contatti da parte di un numero incredibile di atleti, pronti ad indossare il marchio con tre linee.
Una ulteriore evoluzione ci fu nelle calzature indossate da Emil Zatopek che nella seconda metà degli anni ’40 iniziò il sodalizio con Dassler, il quale però fu costretto a togliere il logo dalle calzature di Zatopek per non entrare in conflitto col regime comunista della Cecoslovacchia. Suola in gomma di Para, lacci stretti e via come una locomotiva.
Nel 1951, la finlandese Karhu acquistò i diritti per usare le famose tre strisce diagonali di Adidas, pagate 1600 euro attuali e due bottiglie di Whisky, senza forse sapere il successo che riscuoteranno l’anno seguente alle olimpiadi di Helsinki.
Proprio Zatopek, con le nuove Karhu versione Adidas (look accattivante, suola in gomma semi-rigida e rinforzi sul tallone) andrà a stravincere le Olimpiadi 1952.
Nel 1960, la Karhu dismetterà le tre strisce per l’attuale ” M ” , dando la possibilità alla tedesca Adidas di tornare all’antico splendore e quale modo migliore per inaugurare il nuovo periodo se non con la Gazzella Nera Wilma Rudolph?
Giochi Olimpici 1960, Roma. La Rudolph, la donna più veloce dell’epoca, indossava scarpette rigorosamente tedesche, con i chiodi spostati verso l’inizio dell’avampiede, placca chiodata in nylon e struttura rinforzata sul tallone e sulla curva plantare, denotando già quegli spunti di design che possiamo ammirare tutt’ora. Neanche a dirlo, Wilma Rudolph diventerà la vera imperatrice di Roma ’60, con la tripletta classica 100, 200 e 4×100. Ormai era chiaro come la scarpa giusta influisse sulla meccanica di corsa e sulla forza che sarebbe stato possibile imprimere con una calzatura strettamente specifica.
Non passerà molto tempo prima che Adidas inizi a studiare anche per i multiplisti, i quali non avrebbero potuto far tutto con scarpe da velocità e penareper i tendini d’Achille ridotti peggio che in un girone dantesco.
Nel 1964, Willi Holdorf, multiplista tedesco, mostrò in occasione della rassegna olimpica delle sgargianti Adidas azzurre molto particolari: la forma ricorda le scarpe da salti in estensione odierne, con tacco rialzato e una lunghezza dell’intersuola completa ma morbida, in modo che il piede non restasse del tutto rigido sulle corse lunghe ma nemmeno “scoperto” in occasione di movimenti più traumatici. Prestazione ma anche prevenzione dell’atleta, un altro piccolo passo fondamentale.
Se le scarpe da salto in lungo rimasero molto simili a quelle da velocità, sia nella forma che nelle composizioni, quelle da salto in alto ovviamente subirono radicali cambiamenti, soprattutto dopo l’avvento del signor Dick Fosbury e del suo stile di salto che, dal quel 1968, iniziò a sostituire ed infine destituire il mitico “salto ventrale”.
Fosbury impose il suo famoso stile anche nel calzare, ovvero di porre scarpe di peso diverso per piede, di stacco o meno, favorendo quindi ogni azione del salto a seconda della componente da favorire. Come adesso, le scarpe indossate da Fosbury in occasione delle sua vittoria olimpica, avevano i chiodi sia sul tallone che sull’avampiede, ma con una curva plantare appena pronunciata, il tutto ovviamente nel segno dell’Adidas.
Per decenni, le scarpe venivano munite di un solo paio di chiodi difficilmente rimovibili, quando essi si usuravano le scarpe erano da ricomprare; bisognerà aspettare il 1976 ed “ El Caballo” Alberto Juantorena, il quale, grazie sempre all’Adidas, poté munirsi di scarpe ibride per 400 e 800 ma con la possibilità di cambiare i chiodi grazie alla filettatura come ai giorni nostri. Non sappiamo se i miracoli sono stati fatti dalle scarpe, ma Juantorena sarà il dominatore dei 400 e 800 alle Olimpiadi 1976 ed oltre.
La tecnologia si evolve e nuove scoperte vengono fatte anno dopo anno, fino alla realizzazione di un modello fantastico, addirittura iconico, che sarà il simbolo indiscusso di Atlanta 1996.
Il “ Soldatino di piombo” Michael Johnson, si presentò sulla pista di Atlanta con un pomposo paio di Nike dal baffo rosso e la colorazione interamente dorata: questo famosissimo paio di scarpe fu realizzato in Zytel, una particolare miscela di Nylon e fibra di vetro, pesanti solo 90 grammi e progettate per durare solo una gara. L’acme della leggerezza e della competitività. Al nome di Michael Johnson verrà sempre accostato anche quel luccicante paio di Nike, estremamente appariscenti ma estremamente performanti.
Ebbene, passo dopo passo, la scarpa chiodata è arrivata ai giorni nostri, con la massima specializzazione a seconda della specialità, massima possibilità di personalizzazione a seconda delle sensibilità individuali, sistemi di allacciatura dinamici per adattarsi alla forma mutevole del piede attraverso il ciclo del passo, piastre chiodate in fibra di carbonio per la reattività, talloni rinforzati, zip, stringhe e chiodi di differenti forme oltre che misure.
Dove arriveremo? Forse a dei chiodi sintetici da apporre sotto la pianta, ma una cosa è sicura: l’abito non farà il monaco ma dei grandi piedi fanno un grande atleta.
Intanto accontentiamoci di sognare.
Foto di copertina: Luc Fusaro
Foto 1: Brooklynmuseum.com
Foto 2: naturalrunningcentre.com
Foto 3: Karhu.com
Foto 4: adidas-group.com
Foto 5: adidas-group.com
Foto 6: dailymail.uk
Foto 7: Sportingheroes.net, Adidas-group.com
Foto 8: Solecollector.com